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Epidemia e bici, quali prospettive?

Le forti limitazioni alla libertà di movimento che oggi stiamo vivendo sulla nostra pelle a causa dell’emergenza Coronavirus sono misure straordinarie che non venivano implementate dai tempi della Seconda Guerra Mondiale e sono frutto di un’epidemia che ci ha colti di sorpresa, impreparati, e che sta seminando paure e ansie per tutto il mondo.

Possiamo star certi che gli effetti dell’isolamento non si esauriranno col finire delle misure di contenimento, ma continueranno ad avere strascichi visibili anche per gli anni a venire, che probabilmente saranno cancellati solamente con il debellamento del virus.

L’ansia da contagio continuerà ad esistere, e sarà molto forte soprattutto nel settore del trasporto pubblico: certamente non ci sarà, a ragion veduta, entusiasmo nell’accalcarsi in luoghi come metro o autobus. Queste sono le premesse da cui parte il giornalista e ciclista Alex d’Agosta in un articolo pubblicato il 29 marzo sul Sole24Ore.

Quale sarà quindi il ruolo della bicicletta nel mondo post-pandemico? Nonostante oggi le strade siano, come prevedibile, popolate da un numero incredibilmente basso di ciclisti, ci sembra giusto porci questa domanda affinché si possa essere pronti a ripartire al meglio.

Dal punto di vista del contagio, come sottolinea l’articolo, finché si viaggia da soli e non in gruppo, la bici è uno dei mezzi più sicuri dato che il virus si trasmette grazie al contatto prolungato al di sotto della distanza di sicurezza di 1,5m con soggetti infetti. Già questo dato sottolinea la convenienza dell’uso delle due ruote rispetto a luoghi sovraccarichi e affollati come metro o bus, nei quali rispettare la distanza di sicurezza diventa fondamentalmente impossibile.

Il clima di paranoia diffusosi nelle ultime settimane in Italia non ha certo aiutato a ragionare a mente fredda sull’argomento, complice anche una cultura fortemente sedimentata e totalmente differente rispetto a quella dell’Europa continentale, che non vede la bicicletta come un mezzo di trasporto quanto unicamente come uno sport o un passatempo. Questo ha fatto sì che numerosissimi ciclisti, che pure utilizzavano la propria bici per recarsi al lavoro con tanto di autocertificazione venissero insultati e segnalati alle forze dell’ordine dai “vigilanti del balcone”.

Altro problema diffuso in tempo di quarantena è proprio la mancanza di infrastrutture e la chiusura delle ciclofficine. Sul secondo punto, l’ultimo decreto presidenziale non segnala le officine nella lista delle attività essenziale non disposte a chiusura; si lascia comunque spazio a tutte quelle che sono definite “attività funzionali”, nella cui fattispecie rientrerebbero le ciclofficine qualora le loro prestazioni siano destinate a chi utilizza la propria bici come mezzo di lavoro (sia in senso stretto, sia come mezzo per il raggiungimento del luogo di lavoro).

Discorso a parte è quello delle infrastrutture come ciclabili e ciclopedonali, rispetto alle quali i decreti non impongono una chiusura, chiusura che però è stata ribadita in molti comuni d’Italia tramite ordinanze dei sindaci, considerando indebitamente le ciclabili come luoghi d’aggregazione e non per quella che dovrebbe essere la loro funzione primaria: vie di spostamento, esattamente al pari delle strade per le auto.

Tale limitazione, dovuta all’incuranza di alcuni soggetti che di fatto utilizzano le ciclabili come luogo per praticare sport all’aria aperta, di fatto va ad impattare sull’utilizzo di quest’ultime da parte dei loro legittimi fruitori: coloro che le utilizzano per spostarsi al lavoro o per raggiungere supermercati o farmacie.

A conti fatti, questa emergenza ci ricorda dell’importanza di mantenere un sistema di infrastrutture ciclistiche di qualità, appositamente dedicate alla viabilità, che non siano degli equivalenti ai parchi. Terminata l’emergenza il ruolo della bici sarà ancora più da protagonista, e chissà, sarà la spinta affinché anch’essa inizi ad essere considerata anche in Italia, come uno strumento di mobilità, con pari dignità rispetto all’auto.

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